Ho scelto il titolo la fotografia viva di Valentina Murabito (e, soprattutto l’aggettivo viva) perché, nell’intervistarla, ho sentito forte l’accezione vitale di una creatività alchemica che viaggia, in analogico, tra corpo, materia e metamorfosi.
Qualche nota biografica
Nata a Giarre (Catania) nel 1981 e formatasi tra Catania, Budapest e Berlino, Valentina Murabito è una delle voci più originali della fotografia contemporanea europea.
La sua ricerca esce dai confini tradizionali del mezzo fotografico per sottoporre le opere a un continuo divenire. Crea immagini, stampate su cemento, legno o acciaio, in cui il corpo umano si fonde con profili animali, vegetali o mitologici. Ci troviamo in una “terra di nessuno” tra realtà e immaginazione. La superficie delle immagini, in qualche modo, si scioglie, respira e muta, mentre lei sperimenta processi chimici e plasma i materiali come un’alchimista della luce.

Trasferitasi a Berlino dopo il periodo trascorso all’Accademia di Arte e Design di Budapest (indirizzo automotive), ha esposto in gallerie e festival internazionali attraverso tutto il continente, con riflessioni profonde sull’identità, la metamorfosi e il rapporto umano-non umano. Le sue creature ibride, sospese tra il visibile e l’invisibile, ci invitano a ripensare la natura stessa della fotografia e del corpo.
Nell’intervista, ci racconta il suo percorso, il legame con le origini siciliane e la sfida quotidiana di dar forma a un’immagine non solo vista ma vissuta.
La fotografia viva di Valentina Murabito – l’intervista
Ho letto in un’altra tua intervista che, per te, la fotografia è, prima di tutto, un “disegno di luce”; mi ha ricordato il richiamo frequente che faceva Oliviero Toscani a questa etimologia.
La fotografia è sicuramente un disegno di luce, ma anche una “scrittura“ attraverso la luce, che implica connotazioni più “personali“ e meno oggettive. C’è un primo livello estetico che arriva dalla macchina e dallo scatto. Io intervengo nel processo creativo con un secondo livello espressivo, che nasce nel trasferimento al materiale di stampa (ho fatto molta sperimentazione nella camera oscura).
Il vestito trasparente tessuto dal nitrato d’argento, che ha percorso la storia della fotografia, è sicuramente un tramite di reinvenzione dell’estetica originale (una sorta di “impronta manuale”). Walter Benjamin (filosofo, critico e saggista tedesco – autore de “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” – N.d.A.) ci parla dell’aura dell’opera d’arte intesa come la sua unicità, irripetibilità e presenza. Per me, la pratica di restituzione dell’immagine è un modo per tornare a quell’aura.

I materiali
Il tuo uso della fotografia analogica su supporti inusuali (come il legno, il cemento o l’acciaio) rompe un po’ le consuetudini: cosa ti ha spinto e ti spinge verso queste scelte materiche?
Nella scelta del materiale s’annida un approccio interattivo all’immagine originale. Usando l’ottone, per esempio – un materiale molto riflettente – scelgo di generare scintille, bagliori e riflessi particolari. Nel momento in cui il materiale “comunica” con l’immagine, dà origine a un nuovo contenuto, apre una nuova dimensione. Io uso anche il plexiglas, in cui lo studio sulla luce si estende alla rifrazione.
Per molto tempo, come altri artisti contemporanei, mi sono occupata di ambiente e biodiversità. A volte definisco Giarre, il mio luogo d’origine, “capitale dell’incompiuto”. Oltre a essere una città bellissima, annovera diversi edifici mai finiti o inagibili, fatti di cemento, che soffoca la natura. Questo mi ha lasciato un imprinting legato a materiali in cui s’incarna il contrasto tra un’estetica arcaica e la contemporaneità degli stessi.
Ibridi

Nei tuoi lavori spesso emergono ibridi, come uomo-animale, maschile-femminile o transiti anche più complessi: cosa cerchi di esplorare attraverso queste figure borderline?
Inizialmente (e sicuramente nella fase dell’Accademia) era un tema che esploravo più di frequente, mentre oggi è più che altro un leitmotiv espressivo, un tema ricorrente. Il problema dell’identità è molto contemporaneo e ho cercato di renderne la trama sempre più fluida, per avvicinarmi alla scomparsa del confine. L’obiettivo era soprattutto l’eliminazione della dimensione di giudizio.
In questo sono stata influenzata anche da Antropologi e Sociologi. Mi ha molto colpito, per esempio, il lavoro di Francesco Remotti in “Contro l’identità”, l’esplorazione di un caso estremo per far riflettere sul concetto. Recentemente osservo con gioia l’emergere di un carattere diffuso di androginia tra gli studenti delle Accademie.
Una gestualità artigiana
Ho notato (e me lo hai confermato parlandomi delle tue tecniche) la presenza significativa della manualità e del gesto artigiano nei tuoi metodi creativi. Ti va di approfondire il punto?
Il mio lavoro è totalmente artigianale e manuale; è un processo lento e, spesso, antieconomico. In certi periodi, ho avuto persino l’impressione di lavorare in una bottega medioevale o rinascimentale trasposta nel presente. Questa è una delle ragioni per cui non ho mai proposto opere o installazioni a distanza e considero la mia presenza fisica, nella fase di sviluppo del progetto, imprescindibile.
L’approccio artigianale limita anche i numeri. Siccome, nel preparare un’opera, realizzo da 2 a 5 bozzetti o studi più piccoli, in un anno, tra studi e opere complete, realizzo, al più, 20-25 lavori.
Siccome mi occupo, come creative coder, di arte digitale e interattiva, ho la naturale curiosità di sapere se, benché di mood analogico, sei interessata a queste forme espressive, che, spesso, hanno contaminato l’arte contemporanea.
L’arte digitale non fa parte del mio approccio espressivo, ma la convivenza tra le tecniche è sicuramente bella e positiva. Il confronto con l’interazione, in fase di restituzione al pubblico, può essere stimolante, quindi non ho un pregiudizi critici nei confronti del digitale.

Qual è il tuo rapporto col femminile, in quanto artista donna e fotografa capace di cogliere e trasformare dicotomie (in questo caso maschile-femminile)?
Il femminile non è mai un aspetto marginale della realtà osservata (o del modo di osservare la realtà). In un mio autoritratto del 2013 quell’elemento emergeva in modo potente e lontano dai cliché.
Non m’interessa la differenza tra maschile e femminile in quanto tale, ma come dato ineludibile che s’inserisce nella composizione artistica, come parte di ciò che viene interpretato durante il gesto creativo.

Che rapporto hai con l’aspetto commerciale ed economico del tuo lavoro?
Vivo l’elemento commerciale in un modo molto naturale, visto che è una parte integrante dell’attività. Per me è sempre stato chiaro che il lato sperimentale e creativo va scisso (e credo che mi riesca piuttosto bene) da quello del marketing.
Non ho difficoltà a comunicare ai galleristi o ai collezionisti l’unicità, la fatica e il “mare di lavoro” di cui vive l’opera (ogni settimana spendo 4 o 5 ore solo per lo studio dei materiali).
Berlino
Quanto è importante, per te, vivere e lavorare a Berlino, una realtà molto diversa, per quanto eterogenea e stimolante, dalla tua Sicilia?
Berlino, per la mia crescita di artista, ha significato alzare molto l’“asticella” di ciò che chiedo a me stessa. Ogni giorno vivo un confronto continuo con una realtà multiforme, attraverso scambi, appunti e studi.
Ho dato grande importanza all’apprendimento della lingua e oggi mi sono naturalizzata. Nel 2023, sono stata la prima italiana a conseguire la borsa di studio intitolata ad Adenauer.

Per concludere, come ho già fatto in altre interviste, ti chiedo se c’è qualche tema importante che non abbiamo toccato durante la nostra conversazione.
Credo che le domande di quest’intervista abbiano toccato un po’ tutti i punti salienti della mia ricerca artistica, una cosa che non mi capita sempre.
Un grazie di cuore a Valentina Murabito.
©impulsicreativi.it – riproduzione riservata.
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