Nel titolo, ho definito Ludovica Carbotta esploratrice della dimensione urbana perché mi ha sempre colpito l’interazione tra individuo e spazi abitativi che l’artista continua a indagare nel suo percorso creativo.
Dopo aver visto un bel documentario sulla sua ultima mostra al Mambo di Bologna, ho pensato di intervistarla, per approfondire suggestioni che mi erano arrivate come tracce di un micro-mondo che percepivo solo per flash e sensazioni.
Tratti del suo percorso artistico
Ludovica è nata a Torino nel 1982. Si è formata in Pittura all’Accademia Albertina della sua città, quindi ha frequentato la Central Saint Martins di Londra, con una borsa di studio del Premio Ariane de Rothschild. Nel 2015, ha conseguito il Master in Fine Art presso la Goldsmiths University, sempre nella capitale del Regno Unito.
La sua prima personale si è tenuta nel 2011, presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (a Torino). Le sue opere sono nate al confine tra reale e immaginato, attraverso sculture, installazioni e performance, giocate sul dualismo interattivo tra luogo e identità.
A Bologna è nato un progetto chiave del suo percorso, Monowe, una città di una dimensione parallela, abitata da una sola persona. È un progetto che crescerà negli anni, con diverse tappe evolutive, che in qualche modo culminano nella mostra al Mambo.
Ludovica Carbotta esploratrice della dimensione urbana – i riconoscimenti
Nel 2016 riceve la menzione speciale del Premio MAXXI e consegue il Premio Gallarate. Due anni dopo, si aggiudica il Premio New York e, nel 2020, il Battaglia Foundry Sculpture Prize. Nel 2022 entra nel novero di premiati del programma Italian Council del Ministero della Cultura. Attualmente, insegna Scultura al BAU, il centro Universitario d’Arte e design di Barcellona.
Ludovica Carbotta esploratrice della dimensione urbana – l’intervista
Incontro Ludovica per via telematica, in una call su Google Meet, mentre si trova a Barcellona, in una pausa tra le tappe del suo lavoro. Le spiego la sequenza di eventi che mi hanno spinto a cercarla e inizio con una domanda di contorno, per rompere il ghiaccio:
Ho notato che, tra formazione, residenze d’artista a cui hai preso parte e scelte professionali, hai percorso anche lunghe distanze, che, dall’Italia, ti hanno portata a Londra, in Bolivia, in Olanda e a New York. C’è un fil rouge che, in qualche modo collega questa dimensione del viaggio con il tuo lavoro?
L.C.: In realtà, questa serie di tappe e residenze è collegata, a volte casualmente, con gli eventi della mia vita: studio, progetti, residenze d’artista, desiderio di completare il mio percorso londinese – che si è dipanato in due tranche – e svolte della mia vita privata.
In questo momento, sei impegnata al Mambo (Museo d’Arte Moderna) di Bologna, con la mostra “Very Well, on My Own”, promossa dal Ministero della Cultura, per la diffusione dell’arte italiana contemporanea. L’esposizione è curata da Lorenzo Balbi col supporto di Sabrina Samorì ed è visitabile fino al prossimo 5 maggio.
L.C.: Sì, e, a proposito di percorsi, questa mostra antologica nasce da un mio incontro con Lorenzo, che conosco da diversi anni. Al Mambo abbiamo allestito una mia antologica, con varie opere e riferimenti alle fasi della mia evoluzione creativa e col focus che torna sul rapporto tra individualità e spazio pubblico. È presente anche il film realizzato su Monowe.
Nell’incipit ho descritto Monowe, un progetto in cui hai costruito una città sopraelevata, a Bologna, vissuta da un solo abitante, in diverse fasi temporali. Com’è nata questa tua opera clou?
L.C.: Ho sempre avuto un grande interesse per il sistema urbano e per le dinamiche di forte isolamento che si possono vivere nelle metropoli (New York, Londra, …). A volte, l’isolamento è quasi imposto dal contesto. Nella mia esperienza londinese, all’esterno del sistema universitario, finivo per sentirmi, in qualche modo, ancora più “straniera”.
Ho cercato di spostare questa percezione, interpretando la città come una palestra in cui praticare esercizi e giochi, un aspetto che si era manifestato anche nel progetto Diogene che ho co-creato; era una residenza artistica internazionale in cui, personalmente, ho immaginato la vita in città come un’avventura in montagna, fatta anche di “bivacchi urbani” e permanenze in interstizi abitabili, un po’ come accade ai senzatetto e riprendendo un aspetto vissuto anche a Londra. Nella mostra al Mambo, alcune delle foto esposte sono state scattate proprio a Londra, nel 2008 e nel biennio 2011-12.
In questi contesti performativi, mi ha colpito una cosa che ho letto: facevi dei percorsi a piedi scalzi per poi ripulirli con un panno, su cui si costruiva, in qualche modo, l’impronta visiva e progressiva del contatto tra il suolo della città e le estremità del tuo corpo.
L.C.: Sì, il vissuto nella città è un’ispirazione in cui percepisco l’apertura di “porte immaginative” che trasportano dalla dimensione reale verso contesti narrativi simili ai racconti; un po’ come accade anche nel film su Monowe, dove il personaggio si costruisce attraverso il suo vissuto in tempi diversi.
Pittura all’inizio, scultura, installazioni, performance … quale forma espressiva ritieni più importante nella tua espressione creativa?
L.C.: Tutte sono state e sono importanti, ma, sicuramente, la scultura, è quella in cui esprimo più compiutamente le mie visioni immaginative.
Diogene non è il solo progetto collettivo che hai alimentato. Ho letto anche dell’ “Institute of Things to Come”, ce ne vuoi parlare?
L.C.: The Institute of Things to Come parte da entità già presenti sul territorio, oggetti e realtà da cui sviluppare, attraverso workshop e alcune mostre, una partecipazione collettiva all’attività dell’artista e alla sua narrazione. Le mostre, in particolare, sono state caldeggiate della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, per dare più respiro al percorso progettuale.
Nel mio percorso professionale e creativo, mi occupo spesso di interactive e creatività digitale. Sono trame esplorative con cui hai avuto delle contaminazioni?
L.C.: In realtà, non ho un vero e proprio rapporto con la creatività digitale, anche se, alcune volte, ho scelto di lavorare con scansioni digitali delle opere e delle performance. Per quanto riguarda l’interattività, a prescindere dal mezzo tecnologico, l’ho esplorata, ad esempio, alla mostra tenutasi al MAXXI di Roma, con Monowe.
L’idea era quella di realizzare un forte scambio tra la dimensione narrativa e le fasi esperienziali della visita al museo. Durante la mostra, senza preavvisare il pubblico (erano stato avvertito solo il personale del MAXXI), un’attrice si produceva in dinamiche performative e di contatto con le opere presenti. In quel modo, veniva sperimentato anche un secondo livello di interazione tra le sue azioni e le reazioni del pubblico.
Ci sono stati artisti a cui ti sei specificamente ispirata, durante la tua crescita artistica?
L.C.: Non ho proseguito o fatto mio il corpus creativo di un artista particolare, però, soprattutto attraverso i progetti collettivi a cui ho partecipato, ho incontrato diversi artisti, che ho osservato con interesse e apprezzato. Per citarne qualcuno, mi viene in mente Pak Sheung Chuen, un artista e performer di Hong-Kong, dalla forte capacità immaginativa. Ricordo una sua singolare performance, in cui è rimasto nella Stazione Centrale della metro della sua città, percorrendo la folla sino a quando è riuscito a incontrare qualcuno che conosceva, una cosa decisamente improbabile.
Altri artisti che mi hanno ispirata sono stati Bedwyr Williams, pittore, scrittore e videomaker gallese che ha fatto parte dell’Institute of Things to Come, e Tai Shani, un’artista britannica, che approfondisce storie note o recuperate, realizzando performance, film, installazioni e scrivendo testi sperimentali.
Nel tuo percorso creativo, hai mai incontrato difficoltà in quanto donna?
L.C.: Non credo o almeno non l’ho mai percepito direttamente. Noto però che in termini di visibilità, soprattutto nel settore commerciale, ci sono delle differenze tra generi.
Tu sei un’artista decisamente affermata e hai una caratura internazionale. Hai avuto anche un buon riscontro commerciale dalla tua attività?
L.C.: In realtà, come puoi immaginare, il riscontro commerciale non viaggia di pari passo col successo e l’apprezzamento di critica e pubblico, soprattutto per un tipo di arte che, per sua natura, trova più spazio in contesti pubblici che privati.
Credo che siamo giunti alla conclusione della nostra intervista. Invito il pubblico a sfruttare le ultime giornate della tua mostra al Mambo,
(qui linkato).
Ludovica Carbotta esploratrice della dimensione urbana, c’è ancora qualcosa che ti piacerebbe venisse messo in evidenza?
L.C.: No, direi no, sicuramente la fruizione diretta delle opere è lo stimolo migliore per conoscerle e riflettere sugli spunti che inducono.
Concludo con un ringraziamento di cuore a Ludovica, per il suo tempo e la sua disponibilità, e all’ufficio stampa del Mambo di Bologna, che, tramite Elisabetta Severino, mi ha fornito le immagini a corredo di quest’articolo.
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