
Al Festival del Cinema di Venezia approda “Duse”, un’opera che sfida le convenzioni del biopic per diventare qualcosa di più profondo: un’indagine sull’essenza di una donna e di un’artista. Con Duse, Pietro Marcello torna in concorso a Venezia, dopo il successo di Martin Eden nel 2019, e lo fa firmando un film che si muove tra documento e finzione, tra memoria e sogno, evocando gli ultimi anni di vita di Eleonora Duse, figura centrale del teatro moderno, musa e vittima dell’immaginario dannunziano.
Lontano dal biopic: Duse al Festival di Venezia
Marcello non ha voluto raccontare a questo Festival di Venezia la vita della Duse secondo le coordinate classiche della biografia cinematografica. Nessuna sequenza ordinata di date, nessuna cronaca dettagliata. Piuttosto, il regista sceglie di avvicinarsi a lei come a un enigma, da evocare più che da spiegare. Il film si concentra sull’ultimo tratto della sua esistenza, dal termine della Prima Guerra Mondiale fino all’alba del regime fascista, periodo durante il quale la grande attrice affronta il tramonto della propria parabola artistica e umana.
Attraverso un linguaggio visivo ricco e stratificato, Marcello costruisce un’opera sospesa tra poesia e testimonianza. Fotogrammi che richiamano l’arte pittorica si alternano a immagini d’archivio, come quelle del treno funebre del Milite Ignoto, creando un ponte tra la fine di un’epoca e la condizione esistenziale della protagonista.
Eleonora Duse, la leggenda in scena al Festival di Venezia

Al Festival di Venezia a interpretare Eleonora Duse è stata Valeria Bruni Tedeschi, attrice dalla sensibilità profonda e capace di restituire, con gesti minimi e sguardi densi, la complessità interiore di un personaggio che è già leggenda eppure ancora vivo nella sua fragilità. La Duse di Marcello è una donna consumata dalla tubercolosi, oppressa dai debiti e dalle ferite familiari, come quella del rapporto difficile con la figlia Enrichetta. Ma è anche una figura che non smette di lottare, di cercare nella scena un luogo di verità.
Nonostante il tracollo economico (la perdita dei suoi averi in una banca berlinese, debiti per oltre centomila lire) e il logoramento fisico, la Duse sceglie il teatro come ultima forma di resistenza. La sua arte, cominciata a soli quattro anni accanto ai genitori attori, non ha mai avuto il gusto dell’apparenza: niente trucco, niente eccessi, niente recitazione sopra le righe. Preferiva sussurrare, ripetere le battute fino a incidere le parole nell’animo del pubblico. Anton Čechov scrisse che, pur senza comprendere l’italiano, riusciva a cogliere ogni emozione vedendola in scena.
“Non conosco l’italiano, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”
Anton Čechov su Eleonora Duse
La forza di una presenza scenica
Marcello trasforma questa intensità teatrale in linguaggio cinematografico. La sua macchina da presa non osserva, ma vibra con la Duse, ne accompagna lo smarrimento e la determinazione. Bruni Tedeschi restituisce un personaggio consunto ma mai domo, che attraversa il tempo con la fierezza di chi ha fatto dell’arte una missione e una necessità vitale. Ogni movimento, ogni parola, ogni silenzio è un frammento di un’identità artistica che non ha mai accettato compromessi.

Un’Italia allo specchio
Ma Duse è anche una riflessione sull’Italia di quegli anni. Sullo sfondo del declino personale della protagonista, Marcello disegna un Paese diviso, ferito, in cui il fascismo avanza e l’arte autentica rischia di diventare un bene raro. Il vitalizio concesso a Eleonora da Mussolini, lungi dall’essere un omaggio, sottolinea la tensione tra potere e creazione, tra controllo e libertà espressiva. E la Duse, in questa dinamica, incarna l’artista irriducibile, che non cede, che continua a scegliere la scena come atto politico e spirituale.
Una ferita che pulsa ancora
Il film del Festival di Venezia non manca di esplorare il legame tormentato tra la Duse e Gabriele D’Annunzio. Fu lui a chiamarla “la Divina”, elevandola a simbolo, musa, icona. Ma fu anche lui ad abbandonarla per Sarah Bernhardt, a manipolarne il talento per i propri fini artistici. Quel rapporto, segnato da fascinazione e tradimento, resta come un fantasma presente in ogni gesto dell’attrice. Marcello non giudica, ma lascia emergere l’ambivalenza: Eleonora ha donato tutto all’amore e all’arte, ed è stata ferita proprio da ciò che più ha amato.

In uno dei passaggi più intensi del film, Bruni Tedeschi pronuncia una frase che racchiude il senso profondo dell’opera: “Le donne delle mie commedie mi sono entrate nel cuore e nella testa”. È una dichiarazione d’intenti, un testamento. Per la Duse, dare vita ai personaggi femminili non era semplice interpretazione, ma immersione totale, ricerca di verità e di libertà. E proprio questa capacità di rendere moderni i sentimenti antichi, di parlare al presente attraverso i drammi del passato, la rende un’icona ancora oggi necessaria.
Duse al Festival di Venezia: una memoria viva
Il film di Marcello su Eleonora Duse a questo Festival di Venezia riesce dunque nell’impresa più ardua: restituire al pubblico contemporaneo la vitalità di una figura spesso cristallizzata nel mito. Eleonora Duse non è un monumento da celebrare, ma una ferita ancora aperta, un’energia che sfida il tempo e i ruoli imposti. Attraverso uno sguardo intimo e cinematograficamente potente, Duse ci parla del prezzo dell’arte, della solitudine del genio e della possibilità, sempre attuale, di opporsi al silenzio con la voce della scena.
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